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	Il
	 
	
	trapianto di isole pancreatiche: l’alternativa all’assunzione di insulina
	
	
	.01/02/2013 
	
	
	L'intervista a Camillo Ricordi di quotidianosanita.it   
	
	Negli ultimi 15 anni è passata dall’essere una procedura sperimentale rara 
	per il trattamento del diabete di tipo 1 ad essere una terapia clinica di 
	successo. Parliamo del trapianto di cellule delle isole pancreatiche, un 
	metodo che ha molto di italiano, visto che il vero punto di svolta nella sua 
	applicazione è stato lo studio di un metodo semiautomatico di isolamento 
	delle isole di Langerhans sviluppato da Camillo 
	Ricordi – 
	oggi direttore del Diabetes Research Institute di Miami – alla fine degli 
	anni Ottanta.
 Il metodo, insieme ad un preciso protocollo di immunosoppressione, permette 
	oggi a molti pazienti diabetici di sospendere l’assunzione di insulina. 
	Abbiamo chiesto proprio a Ricordi, a margine del Simposio “Current issues in 
	pancreas/islet transplantation” in corso a Innsbruck nell’ambito del 
	Congresso AIDPIT/EPITA Winter Symposium, di raccontarci quali sono al 
	momento i principali problemi che la ricerca affronta in questo campo, e 
	quali i problemi ancora da risolvere.
 
 Lo scopo della terapia del diabete di tipo 1 è quello di ripristinare una 
	condizione glico-metabolica il più possibile simile a quella normale. Poiché 
	la causa del diabete di tipo 1 è la carenza assoluta di insulina, dovuta 
	alla distruzione da parte del sistema immunitario delle cellule 
	b-pancreatiche dell’organismo stesso, la terapia ad oggi si basa 
	principalmente nella somministrazione dell’ormone dall’esterno.
 Tuttavia, l’unica alternativa realmente possibile sul lungo termine, per 
	evitare le conseguenze delle complicazioni nelle forme più gravi, è quella 
	di ristabilire la produzione di insulina da parte dell’organismo. Per farlo, 
	nei casi più gravi, si ricorre al trapiano di pancreas o di rene-pancreas, 
	che tuttavia è una pratica molto invasiva e sicuramente rischiosa (il 40% 
	dei pazienti presenta complicanze chirurgiche nel decorso post-operatorio), 
	e che dipende dalla reperibilità – sicuramente difficoltosa – di un organo 
	compatibile con il singolo paziente.
 Per questo, nel tempo, si è pensato alla sostituzione delle cellule 
	b-pancreatiche compromesse, condizione che può essere ottenuta per l’appunto 
	grazie al trapianto di isole pancreatiche, tecnica poco invasiva, che 
	permette ai pazienti di sospendere la quotidiana assunzione di insulina per 
	lunghi periodi di tempo, prima che fenomeni infiammatori e immunitari 
	innescati dalla procedura di infusione entrino in atto contro le stesse 
	isole trapiantate.
 
 La limitazione dell’azione del sistema immunitario contro le cellule infuse è 
	dunque uno dei primi problemi che la ricerca sta tentando di risolvere. “Il 
	trapianto di cellule delle isole pancreatiche è una procedura in grado di 
	trattare la condizione di diabete di tipo 1, ma che prevede – come tutti i 
	trapianti – il ricorso nel periodo post-operatorio a delle terapie 
	anti-rigetto”, ci ha spiegato Ricordi, raggiunto proprio nella sede del 
	simposio. “Ciò di fatto limita il numero di pazienti che possono ricorrere 
	alla terapia, eliminando tutti coloro che potrebbero avere delle 
	complicazioni nel ricorso a terapie immunosoppressive di lunga durata. Per 
	questo, uno degli ambiti di ricerca più importanti è sicuramente lo sviluppo 
	di strategie che non prevedono immunosoppressione a vita, un risultato che è 
	possibile ottenere solo grazie a una rieducazione del sistema immunitario”.
 
 Una rieducazione del sistema immunitario può 
	permettere ai pazienti che si sottopongono a trapianto di cellule delle 
	isole pancreatiche di rimanere più a lungo indipendenti dall’insulina. E in 
	questo senso può aiutare un nuovo farmaco sviluppato in Italia, Reparixin, 
	inibitore dell’interleuchina-8, una chemiochina che gioca un ruolo 
	fondamentale nella risposta infiammatoria alla base della riduzione 
	dell’efficacia dell’infusione di isole. “Abbiamo osservato che bloccare i 
	processi infiammatori prima di iniziare la terapia farmacologica che induce 
	tolleranza nel sistema immunitario, come fa Reparixin, permette di ottenere 
	risultati migliori. Quello che si fa, in sostanza, è ‘mascherare’ il 
	trapianto di cellule estranee, in modo che l’organismo eviti di lanciare i 
	segnali che poi innescano il rigetto”, ha continuato il direttore del 
	Diabetes Research Institute. “Questo meccanismo funziona particolarmente 
	bene sulle isole pancreatiche, che sono poche cellule e piuttosto sensibili, 
	ma non escludo che potrebbe aiutare anche in altri tipi di patologie 
	autoimmuni”.
 
 Tra i paesi che pensano che sia necessario puntare sulla tecnica di 
	trapianto delle 
	isole pancreatiche c’è sicuramente la Gran Bretagna, che dopo un lungo 
	processo di approvazione è riuscita sia a inserire la procedura tra quelle 
	rimborsate dal National Health Service (NHS), sia a stilare delle linee 
	guida NICE specifiche sulla procedura. Tuttavia, a questa buona notizia per 
	i pazienti diabetici inglesi non sembrano affiancarsene altre a livello 
	internazionale: anzi le approvazioni sia per le procedure che per i trial 
	sono molto lente e macchinose e questo è uno dei problemi della ricerca in 
	questo campo. “Il sistema di approvazione è sempre più complesso, e i costi 
	lievitano”, ci ha detto Ricordi. “Questo ha due conseguenze non auspicabili: 
	una è che viene limitato il numero di sperimentazioni che viene fatto e 
	l’altra è che sono meno anche le realtà che riescono a fare trial, sempre 
	meno piccoli centri di ricerca e sempre più solo grandi blocchi 
	farmaceutici. Il problema è che se una regolamentazione in sé è giusta, 
	perché bisogna fare ricerca nella massima sicurezza e tutela dei pazienti, è 
	anche vero che non è possibile paralizzare l’innovazione per problemi di 
	questo tipo”.
 
 Ma come si può risolvere il problema? “L’unico 
	modo è quello di discutere, specialisti, governi e agenzie regolatorie, di 
	come sia possibile a livello geografico aggirare questo problema senza 
	andare a discapito della qualità della ricerca. È chiaro che se l’unico 
	parametro è quello di evitare rischi, l’unico modo è non fare 
	sperimentazioni”, ha spiegato con una battuta. “Per questo abbiamo creato la 
	Cure Alliance, alleanza no-profit di scienziati, medici e chirurghi di fama 
	internazionale, personalità note dell'industria e singoli, che ha 
	l'obiettivo di cambiare le regole per arrivare a sviluppare cure in maniera 
	più veloce, efficiente e sicura possibile. Il tentativo è quello di lottare 
	in questo senso anche nei paesi in cui ci sono regolamentazioni stringenti, 
	magari accordandosi su come raccogliere i dati per snellire i meccanismi di 
	approvazione, in modo da non spingersi su posizioni antagoniste che non 
	risolvono il problema”.
 (Laura Berardi, Quotidianosanita.it)
                                     
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